Riflessione di Fedro, Ci vorrebbe un Dickens anche ai nostri giorni, del 15 ottobre 2025

Charles Dickens è stato uno degli scrittori più influenti dell’Ottocento, capace di trasformare la letteratura in strumento di denuncia sociale e di sensibilizzare l’opinione pubblica verso i mali della sua epoca. Nei suoi romanzi, Dickens dipinge con rara efficacia le miserie dell’Inghilterra vittoriana: povertà, sfruttamento minorile, corruzione, emarginazione e le iniquità del sistema giudiziario. Da
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Riflessione di Fedro, Ladri di tempo e lavoratori poveri, del 14 ottobre 2025

Nel pensiero politico e filosofico moderno, il lavoro è molto più di un semplice strumento economico: è uno degli assi portanti del patto sociale che tiene insieme ogni comunità civile. Jean-Jacques Rousseau, nei suoi scritti sul contratto sociale, sosteneva che l’ordinamento politico nasce dal bisogno di assicurare equità e giustizia tra gli individui, compensando le diseguaglianze naturali
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Riflessione di Fedro, Beato chi vive di certezze … sicuro?, del 13 ottobre 2025

Capita spesso di incontrare persone che difendono la propria opinione come fosse una verità indiscutibile, anche se si tratta di accadimenti a quali non hanno assistito direttamente. Di solito, questo atteggiamento nasce dal bisogno di sentirsi più sicuri, valorizzati e riconosciuti dagli altri. Queste persone si aggrappano alle proprie idee e faticano ad accettare visioni
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Riflessione di Fedro, Tolleranza e rispetto se vorremo vivere in una società pacifica, del 12 ottobr...

La difficoltà con cui molte persone accettano che altri possano pensarla diversamente, soprattutto su temi etici o morali, è un fenomeno profondamente radicato nella natura umana e nelle dinamiche sociali. Alla base di questa difficoltà risiedono diversi meccanismi psicologici e culturali. L’identità personale, infatti, si sviluppa anche attraverso l’adesione a valori, credenze e visioni del
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Riflessione di Fedro, Chi non ascolta e non accetta il confronto non meriterebbe attenzione, del 11 ...

Il confronto tra le persone è alla base della crescita individuale e collettiva. Parlare, ascoltare, riflettere insieme permette di ampliare la conoscenza e sviluppare una consapevolezza più matura. Tuttavia, non sempre questo scambio si realizza: molti hanno smesso di confrontarsi perché hanno trovato interlocutori incapaci di ascoltare, interessati solo a imporre la propria opinione. C’è
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Riflessione di Fedro, Ci vorrebbe un Dickens anche ai nostri giorni, del 15 ottobre 2025

15 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Charles Dickens è stato uno degli scrittori più influenti dell’Ottocento, capace di trasformare la letteratura in strumento di denuncia sociale e di sensibilizzare l’opinione pubblica verso i mali della sua epoca. Nei suoi romanzi, Dickens dipinge con rara efficacia le miserie dell’Inghilterra vittoriana: povertà, sfruttamento minorile, corruzione, emarginazione e le iniquità del sistema giudiziario. Da bambino, fu vittima lui stesso di gravi privazioni e questa esperienza gli trasmise una profonda empatia per le fasce deboli della società. Usò la sua notorietà non solo per ispirare cambiamenti legislativi, ma anche per promuovere attivamente la beneficenza: contribuì e sostenne più di quaranta enti caritatevoli, dagli ospedali alle scuole per orfani. L’impatto delle sue opere non fu solo letterario; in particolare dopo la pubblicazione di romanzi come “A Christmas Carol”, si registrò un aumento concreto delle donazioni e della solidarietà diffusa.​

Dickens non fu solo autore di capolavori universali, ma anche di romanzi meno noti che meritano attenzione per la loro potenza narrativa e il loro valore sociale:

  • “Dombey e figlio” esplora le dinamiche familiari e mette in luce gli effetti disumanizzanti dell’industrializzazione, affrontando temi come la perdita, l’orgoglio e il cambiamento sociale attraverso personaggi complessi e profondi.​​
  • “La piccola Dorrit” tratta il tema della prigionia per debiti e la povertà, mostrando con tratti ironici e drammatici l’incapacità delle istituzioni di proteggere i più fragili. Il romanzo evidenzia come le ingiustizie del tempo possano ancora risuonare nell’attualità.​​
  • “Casa desolata” è una magnifica riflessione sul sistema giudiziario, corrotto e inefficiente, dove la vicenda di un interminabile processo mostra il devastante impatto che la burocrazia ha sulle vite delle persone comuni. La sua critica sociale rimane sorprendentemente attuale.​​

Le pagine di Dickens non sono soltanto fotografie di una società ingiusta, ma inviti costanti all’azione e alla responsabilità individuale. Leggere Dickens oggi significa misurarsi con la capacità di vedere, nel nostro presente, il riflesso di molti mali antichi: la povertà, l’esclusione, la necessità di solidarietà. La sua opera ci ricorda che la letteratura può essere ancora uno stimolo concreto a non voltare lo sguardo, a sostenere chi è in difficoltà, e che gesti semplici possono contribuire a migliorare la società.

Un invito alla lettura di Dickens è un modo per regalare a chi non lo conosce qualcosa di bello destinato a lasciare un ricordo di momenti indimenticabili che vanno da un gustoso sorriso alla pena più toccante.

Per chi volesse trascorrere dei bei momenti a seguire i romanzi di Dickens … qualsiasi romanzo tu scelga non te ne pentirai …

Ecco l’elenco cronologico dei romanzi di Charles Dickens, utile per seguire lo sviluppo della sua produzione letteraria e la continua attenzione ai mali della società del suo tempo:​

  • Il Circolo Pickwick (The Pickwick Papers) – 1836-1837
  • Oliver Twist – 1837-1839
  • Nicholas Nickleby – 1838-1839
  • La bottega dell’antiquario (The Old Curiosity Shop) – 1840-1841
  • Barnaby Rudge – 1841
  • Martin Chuzzlewit – 1843-1844
  • Dombey e figlio (Dombey and Son) – 1846-1848
  • David Copperfield – 1849-1850
  • Casa desolata (Bleak House) – 1852-1853
  • Tempi difficili (Hard Times) – 1854
  • La piccola Dorrit – 1855-1857
  • Racconto di due città (A Tale of Two Cities) – 1859
  • Grandi speranze (Great Expectations) – 1860-1861
  • Il nostro comune amico (Our Mutual Friend) – 1864-1865
  • Il mistero di Edwin Drood (The Mystery of Edwin Drood) – 1870 (incompiuto)

(EdS)

Riflessione di Fedro, Ladri di tempo e lavoratori poveri, del 14 ottobre 2025

14 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Nel pensiero politico e filosofico moderno, il lavoro è molto più di un semplice strumento economico: è uno degli assi portanti del patto sociale che tiene insieme ogni comunità civile. Jean-Jacques Rousseau, nei suoi scritti sul contratto sociale, sosteneva che l’ordinamento politico nasce dal bisogno di assicurare equità e giustizia tra gli individui, compensando le diseguaglianze naturali con regole e istituzioni giuste. Il lavoro, in questa visione, è ciò che lega l’individuo alla collettività: attraverso di esso si contribuisce al bene comune e, in cambio, si ottiene sicurezza, riconoscimento e dignità.

Quando però una parte — il capitale — si appropria del frutto del lavoro dell’altra senza una compensazione equa, si rompe questo patto. La relazione non è più sociale ma predatoria. Lo sfruttamento lavorativo, in tutte le sue forme, rappresenta una trasgressione morale e politica prima ancora che economica, perché nega alle persone la possibilità di partecipare pienamente alla vita della comunità. È un furto silenzioso e quotidiano che priva milioni di individui del tempo vitale che dovrebbe appartenere a loro e ai propri affetti.

Questo è il punto in cui nasce la figura del “ladro di reddito, di tempo e di benessere”. Il datore di lavoro che paga salari insufficienti o impone carichi eccessivi non si limita a sbagliare sul piano gestionale; viola il principio fondativo della convivenza democratica, quello secondo cui ogni contributo deve essere riconosciuto e valorizzato in modo proporzionato. In termini etici, il lavoratore non è un mezzo ma un fine: lo ricordava Kant quando affermava che ogni essere umano deve essere trattato come un fine in sé e mai come uno strumento.

Un’economia giusta, dunque, non può abbandonarsi alla logica cieca del profitto, ma deve radicarsi su una visione umanistica del valore: il vero sviluppo non si misura con la crescita delle rendite, ma con la capacità di migliorare la vita di chi lavora. Lo Stato, in tal senso, ha il compito supremo di assicurare che la libertà economica non degeneri in sfruttamento. Non è un limite al mercato, ma la condizione perché il mercato resti umano, cioè capace di generare benessere condiviso.

La dignità del lavoro non è una concessione del capitale, ma un diritto originario. Senza di essa, il lavoro perde la sua dimensione creativa e spirituale, diventando schiavitù moderna, mascherata da flessibilità o competitività. E chi trae profitto da questa schiavitù si macchia di una colpa antica: quella di rubare la vita altrui.

In fondo, ogni lavoratore non chiede ricchezza, ma giustizia: poter vivere del proprio lavoro senza essere consumato da esso. Ogni datore di lavoro, ogni imprenditore, ogni istituzione dovrebbe misurare il proprio successo su questo parametro etico, prima che economico. Perché ci sarà sempre progresso dove c’è rispetto del tempo umano, e ci sarà sempre decadenza dove si accumula ricchezza sulle spalle di chi non può vivere ciò che guadagna.

Un mondo del lavoro giusto non nasce dall’efficienza o dalla produttività, ma dalla consapevolezza morale che il valore del tempo umano è il più alto di tutti i beni. E chi lo ruba — consapevolmente o per indifferenza — non è soltanto un cattivo datore di lavoro. È, nel senso più pieno della parola, un ladro di vita.

(EdS)

Riflessione di Fedro, Beato chi vive di certezze … sicuro?, del 13 ottobre 2025

13 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Capita spesso di incontrare persone che difendono la propria opinione come fosse una verità indiscutibile, anche se si tratta di accadimenti a quali non hanno assistito direttamente. Di solito, questo atteggiamento nasce dal bisogno di sentirsi più sicuri, valorizzati e riconosciuti dagli altri. Queste persone si aggrappano alle proprie idee e faticano ad accettare visioni diverse. Molte volte questa rigidità si sviluppa fin da piccoli, quando si vivono esperienze di giudizio, esclusione o insicurezza. Si tratta di un modo per proteggersi dalle incertezze della vita e dal timore di essere messi da parte dagli altri.

Le convinzioni che radichiamo dentro di noi non nascono solo dai fatti concreti, ma si rafforzano grazie alle emozioni, alle abitudini e alle opinioni delle persone che ci stanno vicine. Per esempio, esiste un meccanismo chiamato bias di conferma: quando pensiamo a qualcosa, cerchiamo con più facilità informazioni che ci danno ragione e ignora quelle che ci potrebbero far cambiare idea. Questo fenomeno riguarda tutti, perché spesso è più semplice restare sulle proprie posizioni che metterle in discussione. A volte la convinzione viene rafforzata dalla “pressione del gruppo”: se chi ci sta vicino la pensa come noi, ci sentiamo ancora più sicuri. Così diventa difficile separare convinzioni fondate su dati veri da quelle che sono soprattutto emozioni o riflessi di ciò che ci hanno insegnato la famiglia, gli amici o la società.

Non si tratta quindi solo di presunzione: questa forma di pensiero può diventare anche una protezione verso le difficoltà, oppure segnare un problema reale nella relazione con gli altri, specialmente se chi la sostiene tende ad arrabbiarsi o ad allontanarsi da chi ha opinioni diverse. Spesso, chi cerca di convincerlo a cambiare idea si accorge che la discussione non funziona, anzi produce un irrigidimento ancora maggiore. In questi casi è importante capire che il cambiamento non avviene grazie a una semplice discussione, ma solo se la persona si sente ascoltata, rispettata e non giudicata. La fiducia reciproca è fondamentale: quando ci si sente accolti nelle proprie paure e insicurezze, si è più aperti anche ad accettare i propri sbagli o a mettere in discussione le proprie certezze.

Per aiutare qualcuno a guardare la realtà in modo diverso, è utile proporre non solo dati concreti o esperienze dirette, ma soprattutto creare occasioni di confronto in cui nessuno si sente attaccato. Chi si sente valorizzato per quello che è, e non solo per le idee che porta avanti, sviluppa una maggiore capacità di riflessione e di ascolto. Questo atteggiamento si rivela fondamentale in una società dove la divisione tra le persone sembra aumentare ogni giorno. Imparare a mettersi nei panni dell’altro, a dialogare senza voler “vincere” la discussione, aiuta a superare tanti ostacoli e pregiudizi che spesso bloccano la crescita personale e collettiva.

La crescita nasce da queste occasioni di scambio e di dubbio. Mettere in discussione le proprie idee, accettare che ognuno ha una lettura personale della realtà, permette di costruire relazioni più sane e di vivere meglio insieme. Il vero risultato non è aver sempre ragione, ma imparare ad ascoltare e a trovare punti di contatto. Ognuno di noi vede la realtà dal proprio punto di vista, e la forza del dubbio è proprio quella di farci evolvere, aprirci agli altri e migliorare come comunità. Riconoscere questo, accettarlo e promuoverlo nella vita di tutti i giorni può portare grandi benefici sia alle persone sia alla società nel suo complesso.

(EdS)

Riflessione di Fedro, Tolleranza e rispetto se vorremo vivere in una società pacifica, del 12 ottobre 2025

12 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

La difficoltà con cui molte persone accettano che altri possano pensarla diversamente, soprattutto su temi etici o morali, è un fenomeno profondamente radicato nella natura umana e nelle dinamiche sociali. Alla base di questa difficoltà risiedono diversi meccanismi psicologici e culturali. L’identità personale, infatti, si sviluppa anche attraverso l’adesione a valori, credenze e visioni del mondo che vengono interiorizzate nel corso dell’esistenza: esse non rappresentano soltanto una “opinione”, ma diventano parte integrante del modo di concepire se stessi e la propria appartenenza a un gruppo. Mettere in discussione tali convinzioni provoca quindi una reazione difensiva, perché si percepisce – anche inconsciamente – una minaccia all’identità. Questo è tanto più vero quando si toccano temi come la religione, la politica, l’orientamento sessuale, ovvero ambiti in cui le certezze si intrecciano ai sentimenti più profondi di appartenenza o esclusione.

Allo stesso tempo, le società hanno storicamente favorito la coesione interna attraverso la condivisione di valori, spesso a costo di reprimere la diversità di opinioni. La pressione sociale volta a mantenere un certo ordine e a evitare il conflitto alimenta l’idea che “pensare diversamente” sia in qualche misura dannoso, o addirittura pericoloso. Non è raro che chi esprima una posizione controcorrente venga percepito come provocatore o disgregatore del consenso. Ciò alimenta una cultura in cui l’opinione minoritaria fa più fatica a trovare spazio, soprattutto se non accompagnata da una dettagliata motivazione, come se il semplice fatto di “pensarla diversamente” non fosse già di per sé legittimo.

Esprimere in modo sereno il proprio pensiero senza il bisogno di giustificarlo è invece il segno di una società realmente tollerante e matura. Ma una simile condizione è rara e difficilmente riscontrabile in forma assoluta nella storia. Anche quei contesti presentati come ideali di tolleranza (si pensi ad Atene, alla Venezia rinascimentale, o ai cenacoli filosofici dell’Illuminismo) hanno conosciuto limiti imposti dalla politica, dalla religione, o dalla morale dominante. Nelle società contemporanee pluraliste, spesso si predica la tolleranza, ma la sua applicazione è selettiva: si è tolleranti finché le idee dell’altro non urtano le proprie convinzioni fondamentali; si accetta la diversità di opinioni, ma si tende a emarginare chi esce troppo dal coro, specie su temi ritenuti “intangibili”.

Un caso interessante viene dagli esperimenti di dialogo interculturale fatti in certe comunità utopiche, o in periodi storici particolari (come nella Cordova medievale, dove cristiani, ebrei e musulmani convivevano relativamente pacificamente); tuttavia, anche in questi contesti la tolleranza era spesso frutto di un equilibrio precario, incline a rompersi di fronte a tensioni economiche o politiche.

La difficoltà ad accettare chi la pensa diversamente nasce anche dall’illusione di possedere una conoscenza oggettiva della realtà: quando si è convinti di essere i detentori della verità – magari rafforzati dall’omologazione del proprio gruppo sociale – si è meno inclini a riconoscere la dignità delle opinioni altrui. Ciò si traduce nel desiderio, più o meno esplicito, di convincere l’altro o di zittirlo. Un vero spazio di tolleranza si crea solo quando si riesce ad accettare che la conoscenza su certi temi – etici, morali, esistenziali – sia necessariamente limitata, e che il confronto sia un’occasione di reciproca crescita e non una sfida tra nemici.

In conclusione, non si conoscono società in cui la tolleranza sia mai stata così condivisa da impedire a chiunque il desiderio di imporre la propria visione o il proprio credo. È, semmai, un ideale a cui tendere, ben sapendo che la natura umana ci pone continuamente di fronte a sfide legate all’identità, al consenso e al bisogno di sicurezza. Riconoscere la legittimità delle opinioni altrui, anche senza richiedere spiegazioni o giustificazioni, è uno dei compiti più delicati e fondativi di una società democratica e autenticamente pluralista.

(EdS)

Riflessione di Fedro, Chi non ascolta e non accetta il confronto non meriterebbe attenzione, del 11 ottobre 2025

11 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Il confronto tra le persone è alla base della crescita individuale e collettiva. Parlare, ascoltare, riflettere insieme permette di ampliare la conoscenza e sviluppare una consapevolezza più matura. Tuttavia, non sempre questo scambio si realizza: molti hanno smesso di confrontarsi perché hanno trovato interlocutori incapaci di ascoltare, interessati solo a imporre la propria opinione. C’è chi lo fa in buona fede, convinto dalla propria esperienza e competenza; ma esistono anche coloro che presumono di avere sempre ragione, indipendentemente dai fatti o dalla logica.

Chi parla, invece, dovrebbe mantenere sempre la disponibilità ad ascoltare, riconoscere quando non conosce abbastanza un argomento, e avere l’umiltà di sospendere il giudizio finché non avrà elementi sufficienti per esprimersi. Oggi, purtroppo, molti — soprattutto nel mondo politico — confondono il confronto con la competizione verbale, fino a contraddirsi pur di mantenere una posizione di potere o consenso. Discutere con chi non ammette mai la possibilità di sbagliare è dunque inutile: il dialogo ha senso solo quando è fondato sul rispetto reciproco e sulla volontà di comprendere.

Un dibattito pubblico, proprio perché ha un forte impatto sull’opinione collettiva, dovrebbe essere regolamentato da principi chiari e da una figura che garantisca il rispetto delle regole del confronto civile. Le parole, in fondo, sono uno strumento nobile; ma diventano un’arma quando si usano per ridicolizzare o sminuire l’altro.

Decalogo della conversazione corretta

  1. Ascoltare prima di parlare. L’ascolto è la base del dialogo autentico: comprender l’altro è la prima forma di rispetto.
  2. Parlare con chiarezza e onestà. Esprimersi in modo comprensibile, senza manipolare i fatti o usare artifici retorici per confondere.
  3. Ammettere i propri limiti. Nessuno è esperto di tutto: riconoscere di non sapere è segno di intelligenza, non di debolezza.
  4. Sospendere il giudizio. Quando mancano dati o conoscenze adeguate, è meglio attendere piuttosto che affermare qualcosa con presunzione.
  5. Rispettare l’interlocutore. Non si discute per vincere, ma per comprendere: offese e ironie svalutano chi le pronuncia.
  6. Fondare le opinioni sui fatti. Ogni posizione dovrebbe poggiare su elementi verificabili e non su semplici convinzioni o slogan.
  7. Evitare la contraddizione opportunistica. Chi cambia idea deve saper spiegare il perché, non farlo solo per convenienza.
  8. Mantenere la coerenza etica. Le modalità con cui si discute contano quanto il contenuto stesso: il fine non giustifica mai i mezzi.
  9. Accettare la possibilità di cambiare idea. La disponibilità a modificare il proprio pensiero in base a buoni argomenti è segno di maturità.
  10. Promuovere un confronto costruttivo. Ogni scambio di idee dovrebbe lasciare entrambe le parti più consapevoli, non più diffidenti.

Un confronto regolamentato da persone autorevoli e secondo il decalogo sopra descritto sarebbe veramente fonte di ispirazione anche se ormai sembra che molti ascoltatori non siano interessati ad altro che allo scontro e alle offese … le uniche cose nelle quali sembrano oramai attrezzati i politicanti di oggi.

(EdS)

News istituzionali, del 10.10.2025, venerdì

10 Ottobre 2025 in News istituzionali

  • Una selezione dalla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 10.10.2025, venerdì

LEGGE 7 ottobre 2025, n. 30.

Modifiche alla legge regionale 14 dicembre 2019, n. 23.

Supplemento ordinario alla GAZZETTA UFFICIALE DELLA REGIONE SICILIANA (p. I) n. 44 del 10 ottobre 2025 (n. 30)

Riflessione di Fedro, Votanti non più di sinistra o destra ma di nepotisti, del 10 ottobre 2025

10 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

La constatazione che la partecipazione massiccia a manifestazioni di carattere sociale, civile o internazionale — come quelle in sostegno alla Global Sumud Flottilla contro l’operato di Israele verso la popolazione di Gaza — non si traduca automaticamente in un successo elettorale per le forze di sinistra è un segnale concreto dei profondi mutamenti in corso nel comportamento politico degli elettori italiani.

Un tempo era più naturale pensare che mobilitazioni imponenti su temi umanitari, pacifisti o di giustizia sociale potessero consolidare o ampliare il consenso attorno ai partiti di riferimento di quell’area ideologica. Tuttavia, le dinamiche politiche e sociali attuali si sono distaccate dai vecchi schemi sinistra/destra, privilegiando un orientamento politico incentrato sulle persone, la credibilità individuale e programmi percepiti come realizzabili, concreti e ancorati alla realtà locale. Oggi non basta condividere la sensibilità su un tema, per quanto rilevante o moralmente urgente: molti elettori chiedono “coerenza” nel tempo, “chiarezza” nelle proposte, capacità amministrativa, prossimità con le proprie esigenze quotidiane e qualche volta anche trascorsi giudiziari che creano fiducia in alcune categorie di soggetti.

Fino a che punto il “tema Gaza” incide sul voto?

La causa palestinese coinvolge profondamente la coscienza di molti cittadini, soprattutto nei settori progressisti, nell’associazionismo e nei circuiti internazionalisti. Partecipare a manifestazioni di piazza è un segnale di impegno civico, ma non è detto che questo impegno sia tradotto in voto alla sinistra. Un primo motivo è che il tema tocca la sfera internazionale, non quella locale, dove il voto è maggiormente condizionato dalla percezione sull’efficienza dei servizi pubblici, sull’uso delle risorse, sulla gestione territoriale e sulla capacità di risolvere problemi concreti quotidiani o di agevolare gli “amici”, anche assicurando l’esercizio di diritti legittimi.

Molti elettori, anche quelli presenti in manifestazioni, finiscono per separare l’atto pubblico di protesta dall’atto formale di voto. Questo avviene perché il voto è guidato da fattori diversi: conoscenza diretta del candidato, valutazione della sua esperienza, fiducia personale, legami sociali, capacità di fare favori.

La frattura nei sistemi di relazione elettorale

La riflessione sul fatto che il “blocco conservatore” sia più predisposto a un voto per amicizia, basato su reti amicali, familiari o clientelari, è particolarmente interessante. In molte aree italiane, il sistema relazionale è ancora il fattore più influente sul voto. Il candidato che appartiene a un contesto sociale ben integrato, che frequenta ambienti professionali, commerciali o religiosi dove può coltivare relazioni di fiducia personale, ha una base solida che prescinde da valutazioni ideologiche. A ciò si aggiunge la percezione diffusa che nel blocco conservatore esista una maggiore flessibilità, se non talvolta una forzatura delle norme, nell’aiutare familiari o amici, garantendo loro accesso a opportunità e vantaggi concreti.

Il blocco di sinistra, per contro, tende a mantenere un approccio più normativo, più rigido nella gestione delle regole e meno incline, di norma, alle “scorciatoie” relazionali. Ciò rende difficile competere sul piano del voto amicale in contesti dove la logica del favore personale rimane molto presente. In altre parole, il voto conservatore può consolidarsi attorno a pratiche di reciprocità immediata e personalizzata, mentre quello progressista richiede adesione a valori e programmi, un processo di fiducia spesso più lungo e meno pragmatico.

La trasformazione del concetto di appartenenza politica

Nel passato, l’appartenenza a un’area politica era un’identità stabile, dove la fedeltà a un partito si trasmetteva persino per generazioni. Oggi, la volatilità elettorale è la norma. Le persone non si riconoscono più in bandiere ideologiche astratte: cercano tratti umani nei candidati, storie credibili e una connessione tra promesse e risultati. Questo spiega perché la presenza su temi come la solidarietà internazionale non si concreta in risultati elettorali omogenei: le piattaforme ideologiche non bastano più, serve la sensazione che il politico “sia uno di noi” e sappia navigare tra le esigenze quotidiane degli elettori.

In un contesto dove la personalizzazione della politica è dominante, il successo elettorale deriva da una strategia che integra i valori universali con una rete territoriale capace di mobilitare, fidelizzare e soprattutto mantenere la fiducia negli anni. La sinistra, se rimane confinata a linguaggi e organizzazioni tradizionali, rischia di confermare l’immagine di forza distante dai meccanismi relazionali più immediati.

Conclusione

Il divario tra mobilitazione di piazza e traduzione elettorale è frutto di una miscela di fattori: frammentazione dell’identità ideologica, prevalenza delle relazioni personali nel voto conservatore, percezione diversa della rigidità normativa tra i due blocchi, e separazione tra temi internazionali e priorità amministrative locali.
La sfida per la sinistra non è semplicemente “portare il tema Gaza nelle urne”, ma adattare il proprio modo di costruire consenso, sviluppando più relazioni territoriali, presenza costante e un “patto di fiducia” che oggi si rivela decisivo. Solo così le manifestazioni della coscienza collettiva troveranno un riflesso tangibile nel risultato elettorale.

Riflessione di Fedro, Montepellegrino, la palestra a cielo aperto, del 9 ottobre 2025

9 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

L’uomo moderno ha progressivamente perso gran parte dei ritmi ancestrali che accompagnavano le sue giornate nelle prime fasi della storia evolutiva. Questi ritmi erano scanditi da attività basilari e imprescindibili, come la ricerca di acqua e cibo, gli spostamenti per la sopravvivenza, e la necessità di trovare rifugio per proteggersi dalle insidie dell’ambiente naturale e dai predatori. Queste attività, radicate nel tempo e nello spazio, contribuivano non solo a mantenere un alto livello di attività fisica e mentale, ma assicuravano anche un ritmo biologico e sociale intimamente connesso con i cicli della terra, delle stagioni e del giorno.

Con l’avvento della società moderna, della tecnologia e della sedentarietà, molti di questi ritmi sono scomparsi o si sono notevolmente ammorbiditi. Viviamo in ambienti controllati, spesso chiusi, con alimentazione abbondante e possibilità di muoverci con mezzi di trasporto meccanici, riducendo drasticamente la necessità di sforzi fisici continuativi e il contatto diretto con la natura. Non si tratta certo di un male assoluto: la vita è diventata più facile, più sicura e più lunga, ma questo cambiamento ha anche un prezzo, a livello psicofisico e relazionale.

Tuttavia, si sta riconoscendo sempre di più l’importanza di recuperare, almeno parzialmente, una certa naturalezza nell’affrontare la vita all’aria aperta. Mantenere o recuperare antiche pratiche, adattandole al mondo moderno e ai diversi stadi della vita, può offrire molteplici benefici, soprattutto per chi si avvicina ai 70 anni, una fase in cui mantenere mobilità, equilibrio, resistenza e lucidità mentale diventa fondamentale. Non si tratta di tornare allo stile di vita ancestrale in modo integralista, ma di riscoprire quei movimenti, quei contatti con la natura, quegli esercizi quotidiani legati al vivere all’aperto che favoriscono la salute fisica e mentale, il senso di appartenenza e il benessere generale.

Come recuperare una naturalezza nell’affrontare la natura e la vita all’aperto?

Per recuperare questi antichi ritmi, occorre proporre pratiche e attività che siano accessibili e praticabili da tutti, indipendentemente dall’età e dal livello di forma fisica, e che favoriscano un graduale ma continuo esercizio del corpo e della mente.

1. Camminare consapevolmente e con naturalezza (trekking, nordic walking)

  • La camminata è l’attività più antica e naturale per l’uomo. Ritrovare il piacere di camminare all’aperto promuove la salute cardiovascolare, migliora la postura e la respirazione, e aiuta a mantenere l’autonomia.
  • Il nordic walking, con l’uso di bastoncini, è particolarmente indicato per chi si avvicina ai 70 anni, perché riduce lo stress sulle articolazioni e permette di coinvolgere tutto il corpo in modo armonico.
  • L’ideale è iniziare con brevi passeggiate in ambienti naturali come parchi, boschi o sentieri, preferibilmente con un gruppo per favorire il piacere sociale.

2. Orientamento e attività cognitive nella natura

  • Praticare l’orientamento, come l’orientering, permette di allenare anche la mente, stimolando la capacità di leggere mappe, usare la bussola e prendere decisioni sul percorso.
  • Queste attività migliorano la capacità cognitiva e la coordinazione, e permettono allo stesso tempo di godere della percezione multisensoriale dell’ambiente naturale.
  • Per chi ha meno dimestichezza, esistono versioni semplificate e corsi specifici per adulti e anziani.

3. Esercizi di equilibrio e coordinazione

  • Pratiche come il tai chi o esercizi di equilibrio sulle superfici irregolari (ad esempio camminare su sentieri sterrati o in zone con radici e pietre) possono aiutare a prevenire cadute, a mantenere la forza muscolare e la stabilità.
  • Questi esercizi possono essere integrati nelle camminate all’aria aperta, favorendo un approccio globale a corpo e mente.

4. Risvegliare i sensi attraverso la natura

  • Un aspetto importante del recupero di una pratica ancestrale è il recupero del contatto sensoriale con l’ambiente naturale: ascoltare i suoni del bosco, osservare i colori e i movimenti della natura, sentire gli odori e toccare le superfici naturali.
  • Questi esercizi di consapevolezza sensoriale aiutano a ridurre lo stress e a migliorare la presenza mentale, elementi essenziali per un invecchiamento sereno.

5. Piccoli compiti “pratici” all’aperto

  • Riprendere abitudini come raccogliere erbe, piccoli frutti o legna per un fuoco (naturale ovviamente e sempre nel rispetto ambientale) può aiutare a mantenere una manualità funzionale e a sentire l’utilità del movimento.
  • Anche lavorare in un orto, dedicarsi al giardinaggio o prendersi cura di semplici attività agricole apporta benessere fisico e mentale.

6. Programmi di attività adattati

  • È possibile creare o aderire a programmi di gruppo specifici per over 60 e 70 anni, che combinino passeggiate, esercizi leggeri, momenti educativi sulla natura e momenti di socializzazione.
  • Questi programmi possono essere realizzati da associazioni sportive, centri anziani, o cooperative che si dedicano alla promozione della salute fuori dalle mura domestiche.

Benefici di questo riscoprire i ritmi ancestrali

Il ritorno a un contatto regolare e consapevole con la natura, attraverso attività alla portata di tutti, ha numerosi vantaggi:

  • Miglioramento della capacità motoria generale, equilibrio, resistenza e forza, qualità indispensabili con l’avanzare dell’età.
  • Stimolazione cognitiva e mantenimento della lucidità mentale, grazie all’apprendimento di nuove abilità (orientamento, lettura del territorio).
  • Riduzione dello stress e miglioramento dell’umore attraverso il contatto sensoriale diretto con la natura.
  • Rafforzamento del senso di comunità e di appartenenza, che svolge un ruolo fondamentale nel benessere psicologico.
  • Incremento della consapevolezza e del rispetto per l’ambiente, un valore sempre più urgente e importante da trasmettere anche alle generazioni più anziane.

Conclusione

Recuperare una certa naturalezza nell’affrontare la vita all’aria aperta non significa tornare completamente ai ritmi ancestrali, ma adattarli in modo moderato e graduale alle esigenze e alle possibilità delle persone oggi, in particolare di chi si avvicina alla soglia dei 70 anni. Attraverso attività semplici e accessibili come il trekking, il nordic walking, l’orientamento, esercizi di equilibrio, e il risveglio dei sensi, è possibile coltivare un legame più autentico con la natura e con il proprio corpo, generando benessere fisico e mentale duraturo. Questi esercizi, praticati con costanza e adattati al proprio livello di forma, rappresentano un potente strumento per vivere con maggiore vitalità e serenità ogni giorno. E tutti questi esercizi possono essere svolti in quella autentica palestra a cielo aperto di cui dispongono i palermitani e che è Montepellegrino, dove in compagnia di guide e naturalisti si potrà riassaporare la bellezza di un tempo che sembrerebbe perduto. Organizziamoci.

Riflessione di Fedro, l’autunno ispira il cambiamento, del 8 ottobre 2025

8 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

L’inizio dell’autunno porta con sé un fascino particolare: la luce si fa più morbida, l’aria più tersa, eppure il clima resta spesso mite, quasi un’eco dell’estate appena trascorsa. In questi giorni di transizione, in cui non si avverte ancora l’esigenza di un abbigliamento pesante, il corpo e la mente vivono una condizione di equilibrio speciale: non si è oppressi dal caldo intenso né costretti alla staticità dall’inverno imminente. È proprio in questo spazio sospeso che si nasconde un’opportunità preziosa per riconsiderare e migliorare le nostre abitudini.

L’autunno, per natura, è una stagione di passaggio, un invito a rallentare e riorientare le energie. La natura attorno a noi lo mostra chiaramente: gli alberi iniziano a mutare i colori, le giornate si accorciano, il ciclo vitale si prepara ad affrontare il riposo invernale. Per chi conduce una vita sedentaria, questo momento può diventare una sorta di “porta socchiusa” verso un cambiamento sostenibile. Quando il clima è favorevole, il primo ostacolo che spesso si oppone alla pratica dell’attività fisica — l’elemento ambientale — viene meno. Non c’è afa insopportabile, non c’è gelo pungente: solo un’aria fresca e piacevole, che invita a camminare, respirare profondamente, muoversi.

Spesso la difficoltà nel cambiare uno stile di vita non risiede nella mancanza di volontà assoluta, ma nella percezione del “peso” del passo iniziale. Invece di pianificare trasformazioni radicali, questo periodo invita alla gradualità: bastano venti o trenta minuti al giorno di camminata a passo sostenuto, un’esplorazione della propria città a piedi, l’adozione di piccole attività mattutine di stretching o esercizi a corpo libero per far sì che il corpo ricominci a sentire il piacere del movimento. Questo stimolo fisico trova quasi immediatamente riscontro anche sul piano psicologico: muoversi migliora l’umore, riduce lo stress, aiuta la mente a trovare un ritmo più naturale e armonioso.

L’impatto sulla sfera emotiva non è secondario. In un’epoca di iperconnessione, molte persone vivono giornate statiche non solo fisicamente ma anche mentalmente, intrappolate in rituali ripetitivi e passivi. La transizione stagionale può diventare una metafora viva: se fuori la natura cambia, perché noi dovremmo restare immobili, ancorati a inerzie poco salutari? Il semplice atto di introdurre nel quotidiano spazi di movimento all’aria aperta — una corsa leggera nel parco, una gita in bicicletta, un giro tra le vie del centro storico, una passeggiata lungo il Foro italico o la Costa Sud — rompe quel ciclo e produce una silenziosa ma profonda rivoluzione interiore.

C’è anche un valore simbolico in questa scelta. L’autunno ci insegna la bellezza del lasciar andare: le foglie cadono, gli alberi si alleggeriscono, e così potremmo fare anche noi lasciando abitudini che ci appesantiscono. Allo stesso tempo, la stagione custodisce una promessa: proprio quando sembra che tutto scivoli verso la quiete, si pongono le basi per la rinascita di primavera. Muoversi oggi, prendendosi cura del proprio corpo e della propria mente, è un seme gettato per il benessere futuro.

Se il pensiero di “fare sport” appare impegnativo o distante, allora possiamo ridefinirlo: non serve per forza parlare di allenamenti strutturati o prestazioni misurate. Basta considerare ogni piccolo gesto come elemento di un rito quotidiano personale: salire le scale a piedi invece dell’ascensore, fare una passeggiata dopo cena, respirare profondamente osservando un tramonto autunnale, concedersi una pausa di luce e ossigeno prima di rientrare al lavoro. In questa dimensione di semplicità e costanza, la transizione stagionale diventa una transizione interiore, capace di trasformare lentamente il nostro modo di abitare il corpo e il tempo.

In definitiva, l’autunno non è solo una stagione di passaggio: è un invito discreto a pensare a sé stessi, a far dialogare il ritmo della natura con quello della nostra vita. Chi coglie questa occasione scoprirà che il cambiamento non nasce dalla forza di rottura, ma dalla capacità di adattarsi dolcemente, di farsi attraversare da un’energia nuova, sfruttando il clima mite non solo per comfort fisico, ma soprattutto come stimolo per un rinnovamento profondo e duraturo.

Riflessione di Fedro, Tra vendetta e genocidio, del 7 ottobre 2025

7 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

L’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 rimarrà inciso nella memoria collettiva come una delle giornate più cupe del nostro tempo recente. In quella data, il sangue versato di centinaia di uomini, donne e bambini, la ferocia di un’azione condotta contro civili inermi, ha ricordato al mondo quanto fragile sia la speranza di pace in una terra che da decenni vive sospesa tra rancore, paura e desiderio di vendetta. Chi ha compiuto quell’atto ha negato, con violenza assoluta, il valore universale della vita umana, facendo precipitare intere comunità in un abisso di dolore e indignazione. È difficile trovare parole che possano esprimere la misura di un simile orrore, perché di fronte a immagini di carneficina e di ostaggi trattati come strumenti di ricatto politico, ogni linguaggio sembra impoverito, incapace di restituire la grandezza della tragedia umana.

Ma ciò che è seguito, la risposta devastante del governo israeliano e il bombardamento incessante di Gaza, ha aperto un altro capitolo di sofferenza che rischia di oscurare il primo. Le cifre delle morti palestinesi, la distruzione di interi quartieri, la disperazione di famiglie costrette a sopravvivere tra le macerie, richiamano alle menti un disegno di punizione collettiva che trascende la legittima difesa e si avvicina a una forma di annientamento. Si è rischiato — e forse si è in parte compiuto — un atto che non solo toglie la vita, ma che cancella la memoria, polverizza radici, recide per sempre il legame di un popolo con la propria terra. Così, mentre l’una parte rivendica la propria sicurezza e l’altra la propria sopravvivenza, la logica della violenza reciproca continua a nutrirsi di se stessa, rendendo sempre più remoto ogni barlume di riconciliazione.

Stigmatizzare entrambi i contendenti non significa porli sullo stesso piano morale, ma ricordare che ogni gesto di disumanità, da qualunque parte provenga, contribuisce ad alimentare il ciclo dell’odio. L’uccisione deliberata di civili israeliani è un atto terroristico, ma il bombardamento sistematico di popolazioni civili palestinesi costituisce un crimine che, pur muovendo da un diverso contesto politico e militare, produce lo stesso effetto distruttivo sulla dignità umana. Alla base di entrambe le tragedie vi è la stessa cieca convinzione: quella di poter costruire sicurezza eliminando l’altro. Ma la storia insegna che nessuna nazione può fondare la propria pace sul dolore di un altro popolo.

Per uscire da questa spirale serve un coraggio diverso, quello della rinuncia all’odio, quello della parola che sostituisce la rappresaglia, quello del riconoscimento reciproco come unica via verso la sopravvivenza. Il punto di svolta potrà venire solo quando ciascuna parte accetterà di guardare all’altra non come a un nemico inevitabile, ma come a una presenza con cui condividere, forzatamente o liberamente, la medesima terra. Ogni bambino che cresce nella paura o nell’odio rappresenta un futuro perduto, un potenziale profeta della vendetta. Ogni gesto di apertura, per quanto piccolo, rappresenta invece un mattone di un fragile ponte che potrebbe collegare due rive oggi lontanissime.

Non c’è pace che possa essere imposta, non c’è sicurezza che possa nascere dalla distruzione, così come non esiste libertà che possa germogliare nel terrore. Le vere conquiste morali dell’umanità — il riconoscimento dei diritti, la dignità della persona, la giustizia — sono nate solo quando le armi si sono deposte e la parola ha ripreso il suo posto. Israele ha diritto a vivere senza la minaccia costante di massacri, e il popolo palestinese ha diritto a vivere libero da occupazione, umiliazione e miseria. L’una sopravviverà veramente solo se l’altro potrà vivere dignitosamente.

La sfida, allora, non è soltanto politica, ma profondamente spirituale e morale: si tratta di scegliere se voler continuare a ripetere le stesse tragedie o se tentare, finalmente, di scrivere una nuova storia. Una storia che, per realizzarsi, dovrà basarsi sulla volontà reale di convivere e di riconoscere nell’altro un essere umano con uguale diritto alla vita, alla speranza, alla memoria. Chi ama la propria vita e quella degli altri non può che invocare questa strada, per quanto difficile e tormentata, come l’unica capace di riscattare davvero l’onore dell’umanità e chissà che le manifestazioni partecipatissime stimolate dall’esperienza della Global Sumud Flottilla non lo mostrino al mondo intero e soprattutto ai popoli che oggi stanno soffrendo.

(EdS)

Riflessione di Fedro, la corsa un rito primordiale, del 5 ottobre 2025

5 Ottobre 2025 in Uncategorized

Correre non è solo un esercizio fisico: è un atto di riconciliazione con sé stessi, un ritorno a quella dimensione essenziale in cui corpo e mente tornano a parlarsi senza sovrastrutture. Chi inizia a correre spesso lo fa per rimettersi in forma, ma chi continua, lo fa per ritrovare equilibrio, silenzio interiore e una forma di libertà che pochi altri gesti sanno regalare. La corsa ha qualcosa di primordiale: è l’uomo che torna alla sua essenza, che misura il tempo non con l’orologio ma con il respiro, con il ritmo dei passi che scandiscono il fluire dei pensieri.

L’allenamento, inizialmente faticoso, diventa nel tempo un appuntamento irrinunciabile. Si impara a riconoscere le proprie sensazioni, ad accettare la fatica, a trasformarla in concentrazione. Ogni corsa è una piccola conquista: la prima volta che si coprono cinque chilometri senza fermarsi, la prima volta che si migliora il proprio ritmo, la prima volta che il corpo risponde meglio del previsto. Sono momenti che, messi insieme, costruiscono un percorso di crescita personale che va ben oltre lo sforzo fisico.

Non serve essere atleti per correre una 10 km o una mezza maratona. Serve costanza, curiosità e un pizzico di coraggio per sfidare la propria inerzia. Chi si avvicina alla corsa scoprirà presto che non conta tanto il cronometro quanto il cammino che si compie dentro di sé: la capacità di ascoltarsi, di rispettare i propri limiti e di superarli poco alla volta.

La maratona, poi, è un simbolo. Non è solo una distanza di 42,195 chilometri, ma il racconto di una sfida umana che attraversa fatica, dubbio e rinascita. Prepararla significa imparare la pazienza, la disciplina, la fiducia nella propria determinazione. Ogni giorno di allenamento diventa un tassello di un viaggio che trasforma.

Chi corre non fugge da nulla: corre verso qualcosa. Verso un sé più consapevole, più leggero, più autentico. Per questo, se puoi, inizia. Allaccia le scarpe, non pensare troppo, e lascia che il primo passo apra il tuo cammino. Gli altri seguiranno, naturalmente, come un ritmo antico che ti riporta a te stesso.

Riflessione di Fedro, la politica non può essere affidata a dei tifosi, del 4 ottobre 2025

4 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Un approccio aperto alla politica, basato sul dialogo e sul confronto, parte dal presupposto che le opinioni siano frutto di ragionamento, esperienza e valori condivisibili. Chi si muove in questa prospettiva è disposto a mettere alla prova le proprie idee, accettando il rischio di modificarle se emergono argomenti più solidi fondati su democrazia e legalità. In questo quadro, l’avversario politico non è un nemico, ma un interlocutore con cui condividere uno spazio di confronto; la diversità di opinioni è vista come una ricchezza, non come una minaccia.

All’estremo opposto troviamo l’approccio identitario o “calcistico” alla politica, dove l’appartenenza a un partito o a un leader diventa un tratto di fede, simile al tifo sportivo. Qui il politico preferito diventa una figura intoccabile: le sue parole vengono accettate senza critica e ogni dissenso è percepito come un attacco alla propria identità. Non c’è spazio per il cambiamento di opinione, perché l’adesione è emotiva e spesso viscerale. Il pensiero critico risulta marginalizzato dall’emozione di appartenenza e dalla necessità di sentirsi parte di un gruppo compatto.

Gli elementi centrali del primo approccio includono:

  • Disponibilità al confronto: si ascolta l’altro con l’intento di comprendere.
  • Verifica delle fonti e degli argomenti: le idee vanno sostenute da dati e principi coerenti.
  • Flessibilità intellettuale: ammettere la possibilità di avere torto.
  • Rispetto delle regole democratiche: accettare l’esito delle decisioni collettive.

Nel secondo approccio spiccano invece:

  • Fedeltà assoluta al leader o al partito.
  • Polarizzazione: riduzione della complessità a “noi” contro “loro”.
  • Rifiuto del dialogo: l’opinione diversa è scartata a priori.
  • Uso selettivo o distorto delle informazioni.

Per incentivare un dialogo costruttivo con chi rifiuta il confronto, non basta insistere sulla ragionevolezza: occorre agire su più piani. Alcune azioni possibili:

  1. Creare contesti mediati: gruppi o incontri moderati da terze persone neutrali, che stabiliscano regole di rispetto reciproco e tempi di parola.
  2. Partire da punti comuni: individuare temi su cui entrambe le parti possono convenire, anche minimi, per costruire gradualmente fiducia.
  3. Separare le idee dalle persone: discutere le proposte senza trasformare il confronto in un giudizio sul leader o sull’identità del gruppo.
  4. Stimolare l’ascolto attivo: proporre esercizi dove chi parla deve prima riassumere correttamente la posizione dell’altro.
  5. Educazione alla cittadinanza: promuovere, soprattutto nei più giovani, capacità di analisi critica e il rispetto per posizioni diverse.

Queste azioni non garantiscono un cambiamento immediato, perché l’adesione “di fede” alla politica è spesso radicata in fattori emotivi e sociali profondi. Tuttavia, possono ridurre l’ostilità e aprire una fessura attraverso cui la ragione può filtrare. La sfida è trasformare il confronto da scontro sterile in dialogo autentico: un compito complesso, ma indispensabile per una democrazia che voglia restare viva e capace di rappresentare tutti, non solo chi tifa per la propria squadra politica.

(EdS)

Personale cercasi, del 03.10.2025, venerdì

3 Ottobre 2025 in Personale cercasi

Pubblicità postazioni dirigenziali vacanti

Manifestazioni di interesse per mobilità interdipartimentale del personale anno 2025

Riflessione di Fedro, Finchè ne avrò la forza dirò no al fascismo … perché sono umano e oggi io c’ero allo sciopero!, del 3 ottobre 2025

3 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

La riflessione che nasce dall’adesione allo sciopero generale di oggi evidenzia il cuore pulsante di una questione che non è soltanto politica, ma soprattutto umana. L’episodio della Global Sumud Flotilla — un atto di solidarietà civile volto a portare aiuti a una popolazione intrappolata sotto assedio — diventa il punto di incrocio tra due visioni del mondo: da un lato, quella che potremmo chiamare “woke”, cioè sensibile ai diritti, alle ingiustizie storiche, ai linguaggi discriminatori, alla necessità di costruire comunità inclusive; dall’altro, quella che affonda le radici in una mentalità che possiamo definire neo-fascista, perché costruita sulla gerarchia, sull’uso della forza, sull’identificazione dell’altro come nemico da abbattere.

Chi accusa la Flottilla di non essere “umanitaria” ma “politica” cade in un cortocircuito morale: che cos’è, infatti, l’atto politico nella sua essenza più nobile, se non la difesa della dignità umana, la presa di posizione contro l’ingiustizia e la violenza? Se definire un’azione umanitaria come politica significa sminuirne la portata, allora si rivela implicitamente di credere che il confine tra il bene comune e gli interessi di potere sia ormai nebuloso, e che la compassione stessa debba essere sospetta. Ma la verità è che non esiste forma di umanità che non sia intrinsecamente politica, poiché l’essere umano vive sempre dentro relazioni di potere, dentro strutture sociali e storiche.

Ed è qui che si delinea lo spartiacque culturale. Lo spirito “woke”, se depurato dalle semplificazioni caricaturali con cui viene liquidato dai suoi oppositori, non è altro che una tensione etica verso la giustizia e l’empatia. Essere “woke” significa non voltarsi dall’altra parte di fronte alla sofferenza, significa riconoscere il legame tra i privilegi di alcuni e l’oppressione di altri, significa comprendere che il linguaggio e le pratiche quotidiane possono ferire o liberare. Lo vediamo nella solidarietà internazionale verso Gaza: al di là dei governi e delle diplomazie, c’è un tessuto di individui, associazioni, comunità che sentono l’urgenza di dire “no” a una violenza sproporzionata contro civili indifesi, perché questo “no” è il seme di ogni resistenza democratica.

Sul fronte opposto, c’è la visione fascista o neo-fascista, che si ripresenta sotto forme aggiornate ma con la stessa sostanza: la riduzione dell’altro a minaccia, la legittimazione della sopraffazione come risposta alla paura, la costruzione di una comunità politica attraverso l’esclusione e l’annientamento del diverso. Il fascismo contemporaneo si traveste da difesa della civiltà, da esigenza di sicurezza o da orgoglio nazionale, ma in realtà ripropone un paradigma antico: la forza come unica lingua, il rifiuto della mediazione e della complessità, l’imperativo di semplificare le relazioni umane nella dicotomia amico/nemico. È questo che vediamo quando un governo giustifica bombardamenti indiscriminati come risposta legittima a un atto terroristico: una logica binaria che cancella le persone e sostituisce l’empatia con la paura.

La frattura tra queste due visioni non è teorica. Essa attraversa le piazze, gli ambienti di lavoro, i dialoghi famigliari: da una parte, chi crede che la missione della politica sia la difesa dei vulnerabili; dall’altra, chi vede nella vulnerabilità stessa un difetto da eliminare, un ostacolo alla potenza di uno Stato o di una nazione. Per questo aderire a uno sciopero generale non è solo un gesto sindacale, ma un atto di cittadinanza consapevole: diventa la riaffermazione di un principio universale contro la normalizzazione della violenza.

Il paradosso profondo è che oggi essere “svegli”, “woke”, non significa inventare nuove ideologie, ma semplicemente riappropriarsi di un senso elementare di umanità. Essere fascisti, invece, sembra paradossalmente la via più facile: costa meno pensare in bianco e nero, affidarsi a simboli forti e a leader autoritari che promettono risposte immediate, anziché esercitare la fatica del dialogo o il dubbio della complessità. Ma la storia europea, e in particolare quella italiana, ci ricorda il prezzo altissimo pagato da chi ha scelto la via breve della forza al posto della strada più difficile della democrazia.

La Global Sumud Flotilla allora non è soltanto un atto di aiuto concreto. È un simbolo doppio: da un lato, della potenza di una società civile che immagina un mondo diverso, dall’altro, della fragilità di un sistema politico incapace di accettare che la solidarietà possa avere una voce autonoma, non addomesticata dai governi. Ed è per questo che la definizione di “politico” usata in modo dispregiativo si rivolta contro chi la pronuncia: perché sì, quella missione è politica, ma nel senso autentico e originario, quello che rifiuta la barbarie e afferma l’irriducibile valore di ogni vita umana.

(EdS)

Riflessione di Fedro, Quanto ci mancherà una società woke … l’odio fa schifo, del 2 ottobre 2025

2 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

L’odio come strumento di mobilitazione politica non è una novità della storia, ma nelle società contemporanee assume una dimensione nuova perché sfrutta meccanismi di comunicazione di massa rapidissimi e penetranti. Quando una parte non marginale della popolazione trova più facile identificarsi in un nemico comune, costruito spesso artificialmente da leader senza scrupoli, la tenuta democratica di un Paese entra in una zona di rischio. Il “manipolo” di politici che si erge a interprete di paure collettive, pur non avendo una vera progettualità di governo, riesce a creare consenso non indicando soluzioni, ma offrendo capri espiatori. Gli immigrati diventano allora il simbolo delle ansie economiche, la diversità culturale diventa minaccia, la complessità del mondo globale viene ridotta a racconto manicheo di “noi” contrapposti a “loro”.

I pericoli per la società, quando questo paradigma si consolida e diventa politica istituzionale, sono molteplici. Il primo è l’erosione graduale dello spazio democratico. Se la legittimazione del potere si fonda sull’esaltazione del conflitto e sul sospetto reciproco, le istituzioni smettono di svolgere la loro funzione di garanzia per tutti e si trasformano in strumenti di esclusione. La legge, anziché equa misura comune, diventa un’arma da brandire contro le minoranze o contro chi dissente. Con il tempo, il cittadino medio si abitua a vedere segmenti della società progressivamente privati di diritti fondamentali, e l’indifferenza diventa il vero collante del sistema.

Un secondo pericolo è lo svuotamento della dimensione culturale. Politiche che si nutrono di odio hanno come obiettivo implicito il soffocamento della complessità del pensiero critico: libri banditi, programmi educativi “bonificati” da contenuti che parlano di pluralismo, giornalisti e intellettuali delegittimati come “traditori”. L’odio per funzionare ha bisogno di semplificazione e dell’eliminazione di ogni zona d’ombra: non servono cittadini che pensano, servono tifosi che obbediscono. La ricchezza culturale, fatta di contaminazioni e prospettive diverse, viene sostituita da una narrazione povera e monocorde che mira solo a perpetuare il consenso.

Terzo, la dimensione economica. Benché gli agitatori della paura parlino spesso in nome della “difesa della nazione e dei suoi bilanci”, in realtà il clima d’odio allontana investimenti, irrigidisce i mercati, frammenta le catene di cooperazione globale. Alla lunga i costi vengono pagati dalla popolazione stessa che, paradossalmente, aveva abbracciato questi politici per paura dell’impoverimento materiale. La diffidenza verso lo straniero, elevata a categoria economica, priva i cittadini di opportunità di crescita e genera stagnazione.

Forse il pericolo più insidioso è però quello spirituale. Una società governata dagli odiatori per lungo tempo disabitua i suoi membri all’empatia, al sentire comune, alla capacità di riconoscere l’altro come volto umano. Senza queste fibre sottili, che non si vedono ma tengono insieme la compagine sociale, si rischia una disgregazione silenziosa. È come se nel corpo sociale venisse meno il sistema immunitario: basta una crisi – una pandemia, una guerra, una catastrofe naturale – e la comunità, anziché unirsi, implode nella guerra di tutti contro tutti.

Un’alternativa è sempre possibile, ma richiede coraggio politico e culturale. È più difficile costruire speranza che seminare rancore, più complesso spiegare la realtà con le sue contraddizioni che ridurla a un nemico da respingere. Eppure il compito di chi crede in una società inclusiva, attenta ai bisogni al di là di colore, genere o fede, è proprio questo: offrire un racconto collettivo che non sia meno potente dell’odio. Perché se gli odiatori mantengono a lungo il potere, ciò che rischiamo di perdere non è solo il benessere economico o l’efficienza istituzionale, ma quell’umanità condivisa che è la vera base della democrazia.

Ed è quello che si comincia a vedere non in un piccolo paese ma addirittura in quella che fu la prima superpotenza mondiale. Forse sarò troppo pessimista ma ho la sensazione che si stia rivivendo quello che vissero i popoli europei all’indomani del primo conflitto mondiale, e sappiamo come andò a finire. Dobbiamo proprio ripetere tutto ciò.

Riflessione di Fedro, una “Flottilla” di eroi per l’umanità intera, del 1 ottobre 2025

1 Ottobre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Il gesto di chi decide di salpare con la Global Sumud Flottilla non è un semplice atto politico: è la trasformazione della propria vita in testimonianza vivente, in segno tangibile che l’umanità non è interamente assoggettata alla logica della forza. E proprio per questo, chi vi partecipa sa di esporsi a un rischio estremo. La loro scelta è attraversata da tensioni interiori che si possono leggere sia con lo sguardo del credente sia con quello dell’ateo, perché entrambi si trovano di fronte all’enigma della morte e del senso del sacrificio.

Lo sguardo del credente

Il credente, qualunque sia il suo dio, percepisce che la vita non termina con l’ultimo respiro. La fede diventa un’àncora: se la violenza li travolgerà, la loro anima non cadrà nel vuoto. Egli può pensare che il suo sacrificio venga raccolto da Dio come testimonianza di giustizia e amore. Può immaginare che, tra le lacrime e l’odio, germogli un frutto invisibile, custodito dal divino, che un giorno darà alimento alla riconciliazione. Il credente affronta l’odio sapendo che non è assoluto, che sopra il muro costruito dagli uomini ne esiste uno più grande, invisibile, che unisce.

In questa prospettiva la paura si trasforma in offerta. Non è più “io perdo la mia vita” ma “io dono la mia vita”. Il gesto assume valore sacrale, quasi liturgico: il mare stesso diventa un altare dove il sacrificio non è per un dio assetato di sangue, ma per un’umanità affamata di speranza. Da qui nasce il coraggio di affrontare la sproporzione della forza nemica: ciò che terrena potenza può schiacciare, la mano di Dio può trasfigurare.

Lo sguardo dell’ateo

Per l’ateo il discorso è più drammatico e insieme più radicale. Non c’è un aldilà a cui appoggiarsi, nessun dio che accolga la scelta. C’è soltanto la forza nuda della responsabilità: se la vita è una sola, darla in pegno significa credere che essa possa avere senso solo spendendola per gli altri. Non sarà Dio a dare valore al gesto, ma gli uomini e le donne che da lontano guardano e riflettono.

Per l’ateo la vita di chi parte è come una candela in mezzo a una tormenta: sa che può spegnersi in un attimo, ma proprio per questo la sua fiamma vale infinitamente. Non crede a un compenso ultraterreno, è cosciente che il sacrificio si consumerà in se stesso. Eppure sente che accettare questa possibilità è il massimo atto di libertà: la capacità di dire “la violenza non avrà l’ultima parola” senza bisogno di una promessa divina. È un modo di togliere all’odio la sua arma più potente, cioè la convinzione che la vita non valga nulla.

Un punto in comune

Eppure, se si guarda più a fondo, il credente e l’ateo si incontrano. Per entrambi, chi parte sulla Flottilla mette in gioco la propria esistenza per spezzare il ciclo dell’odio. Il credente dice: “La mia vita è in Dio, e quindi non appartiene alla morte che tu mi minacci”. L’ateo dice: “La mia vita è solo questa, ma vale così tanto che la dono piuttosto che lasciarla marcire nella paura”. Entrambi rifiutano la riduzione della vita a materia da calcolo politico.

In questo incrocio, fede e non fede diventano due strade che portano allo stesso orizzonte: la rivendicazione di un’umanità che non si piega alla logica della sopraffazione. E forse proprio questa comunanza è il senso segreto dell’impresa: al di là delle ideologie, al di là dei credi, ciò che resta è la possibilità che uomini e donne scelgano di essere liberi, anche quando questa libertà può costare la vita.

L’eroismo della Flottilla non nasce quindi da un desiderio di martirio, ma dalla coscienza che ogni azione umana può accendere un frammento di speranza. Se per il credente speranza è sinonimo di eternità, e per l’ateo è sinonimo di futuro terreno, entrambi si ritrovano nell’idea che la vita può trascendere se stessa solo trasformandosi in dono.

(EdS)


Riflessione di Fedro, La vita qui e ora, del 30 settembre 2025

30 Settembre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

L’idea che ci debba essere un “oltre” dopo la morte nasce da un’esigenza profondamente umana: la paura della finitudine, l’angoscia del nulla, il rifiuto di pensare che tutto ciò che ci costituisce — pensieri, ricordi, sentimenti, desideri — venga dissolto senza lasciar traccia. La religione, la filosofia e perfino la letteratura hanno a lungo costruito narrazioni per dare forma a questa speranza: il paradiso, la reincarnazione, il ciclo eterno, la fusione con l’assoluto. Eppure, se ci distacchiamo da questa prospettiva e ci poniamo in un’osservazione più “naturale”, la domanda fondamentale si rovescia: perché mai dovrebbe esserci un seguito? In che cosa siamo davvero diversi da una pianta che cresce, fiorisce e deperisce, o da un animale che percorre il suo ciclo vitale sino alla fine, senza farsi domande sull’“eternità”?

La coscienza, certo, ci differenzia: noi sappiamo di dover morire. E questa consapevolezza costituisce il paradosso della condizione umana: un essere vivente che brama la permanenza pur sapendo di essere transitorio. È qui che nasce l’angoscia, ma anche la nostra forza. Perché se tutto finisce, allora ogni istante acquista un peso specifico maggiore, un valore irripetibile. Se la vita fosse eterna e rinnovabile, avremmo forse lo stesso interesse a cogliere la fragilità della bellezza, il carattere fugace delle emozioni, il significato delle scelte?

Guardando la natura, si nota che ogni essere vivente compie un ciclo: nasce, si sviluppa, si riproduce, muore. Non c’è tragedia in questo, c’è un ritmo. L’uomo, invece, tende a opprimersi con il pensiero della propria temporalità, e nella paura del nulla costruisce spesso sistemi che portano a conseguenze paradossali: sacrificare il presente in nome di un futuro ultraterreno. Ma che senso ha privarsi o privare altri della vita concreta — fatta di sensazioni, relazioni, scoperte — per servire una promessa che nessuno può verificare? Qui emerge il rischio di confondere la speranza con il dogma, la consolazione con la tirannia.

La memoria, da parte sua, ci concede solo un fragile appiglio. Ogni esperienza diventa ricordo, ma i ricordi svaniscono insieme all’organismo che li conserva. La demenza lo rende tangibile: ciò che si credeva saldo si dissolve, i legami con il passato si sfilacciano, la narrazione biografica si sgretola. In questo scenario, che valore assumono i ricordi? Non tanto quello di garantire un senso eterno, quanto di dimostrare che la vita non è accumulo ma flusso. Ciò che si vive ha significato nel momento stesso in cui esplode, e non ha bisogno di una “garanzia” oltremondana.

Vivere nel presente, allora, non è un banale invito carpe diem, una fuga nelle passioni immediate: è riconoscere che la sola dimensione autentica che possediamo è il qui e ora. Non possiamo riavere ciò che è passato, non possiamo anticipare ciò che non è ancora accaduto. Possiamo solo agire, sentire, scegliere in questo istante, che diventa tutto.

Sacrificare il presente in nome di un aldilà significa sottrarre significato a ciò che è tangibile per inseguire ciò che resta ipotetico. Significa rinunciare all’unico terreno certo — la vita terrena — per una scommessa che non ammette verifica. Alcuni trovano in questa scommessa una forma di consolazione, di pace con la paura della morte; altri la giudicano un’ingannevole distrazione dal vivere pienamente. La questione non è uniformemente risolvibile, perché ognuno trova il suo equilibrio tra finitezza e speranza.

Ma se davvero osiamo guardare la vita per ciò che è — un’attesa senza epilogo se non la fine stessa — allora il senso non va cercato in un dopo, bensì in un continuo atto di creazione nel presente. La vita è un’opera in fieri che acquista valore non per la promessa del suo proseguimento, ma per l’intensità con cui viene vissuta. La libertà più grande, forse, risiede proprio nell’accettare che non ci sarà nulla “dopo”: e allora tutto, davvero tutto, diventa prezioso adesso.

(EdS)

Riflessione di Fedro, Si lasci che le innovazioni maturino!, del 29 settembre 2025

29 Settembre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

Che cosa ci insegna Bulgakov ne Le uova fatali? Fondamentalmente che se consegni una tecnologia rivoluzionaria nelle mani sbagliate, l’umanità riuscirà non solo a rovinarsi con una rapidità impressionante, ma lo farà convinta di star costruendo il futuro radioso. E non parlo solo dell’Unione Sovietica degli anni ’20, no: basta guardarsi intorno nel nostro 2025 occidentale, sempre iper moderno e sempre più incline a scivolare sulla stessa buccia di banana.

Il professor Persikov, biologo serio e un po’ lunatico, scopre quel misterioso “raggio rosso” capace di accelerare la vita. Sta ancora cercando di capire i meccanismi, di osservare gli effetti, di compilare dati, ma ecco che la politica (che non sa distinguere un ranocchio da un girasole) decide che lo strumento dev’essere usato subito: alleviamo polli giganti! Produciamo uova per tutti! Basta fame! È l’alba di un miracolo agricolo. La scienza, alla fin fine, è utile solo quando fa crescere fatturato o consenso elettorale, no?

E qui scatta il parallelo con la modernità: dal vaccino al digitale, dall’IA alla blockchain, non c’è scoperta che non venga velocemente trasformata in slogan da campagna marketing o legge nazionale votata di fretta, senza che nessuno — a parte quegli antipatici esperti, ingombranti con i loro grafici e dubbi — chieda “è davvero pronto?” o “che imprevisti può avere?”. La parola chiave è “implementazione immediata”: se rallenti sei un passatista, un frenatore, un nostalgico. E allora dentro: piattaforme digitali fatte con lo scotch, intelligenze artificiali spacciate come oracoli e usate per licenziare più in fretta, algoritmi che non si capiscono ma di cui ci fidiamo quanto dei tarocchi.

Nel racconto, quell’uso avventato del raggio rosso provoca una catastrofe: non polli ricolmi di proteine, ma rettili mostruosi pronti a divorare Mosca. Nella realtà, i nostri mostri non hanno zanne né squame, ma sono altrettanto famelici: polarizzazione sociale, fake news più velenose di un pitone, catene infinite di complotti servite calde su qualsiasi bacheca social. Abbiamo accelerato la vita digitale al punto che anche un semplice fatto di cronaca si sviluppa come un esperimento sul raggio di Persikov: diventa virale, muta, cresce oltre ogni limite e alla fine travolge il laboratorio che voleva osservarlo.

La morale ironica è che la storia, purtroppo, non è maestra di vita. Bulgakov segnala con un umorismo caustico che l’umanità tende a usare la scienza come un bambino usa un martello: non importa che serva a fissare un quadro, l’importante è battere forte ovunque, anche sul televisore nuovo. E così noi, con i nostri esperimenti tecnologici, sembriamo convinti che se inventiamo abbastanza mostri giganti prima o poi uno, almeno uno, sarà buono e gentile e magari ci porterà persino la spesa a casa.

Non sorprende, quindi, che oggi i “professori Persikov” — gli scienziati competenti, i tecnici prudenti, quelli che parlano di valutazioni d’impatto e di scenari di lungo periodo — siano spesso messi ai margini, o ridotti a nota a piè di pagina nei talk show dove domina l’esperto improvvisato che in cinque minuti ha capito tutto di epidemiologia, climatologia, crittografia e agricoltura sostenibile. Tanto la fretta è il nostro vero raggio rosso: un acceleratore che non tollera dubbi, pause, riflessioni.

Così, se nel racconto i rettili finivano per invadere Mosca, nel nostro tempo il mostro ha già invaso le nostre case: si chiama superficialità. Ci sussurra che tutto è semplice, immediato, sicuro. Ma sotto la sua pelle liscia si nasconde proprio quello che Bulgakov aveva visto: che se non lasciamo la scienza agli scienziati, e il governo delle trasformazioni tecnologiche a chi ha pazienza e competenza, allora sì, ci troveremo circondati da uova fatali di nostra produzione, pronte a schiudersi con conseguenze che — ancora ironicamente — ci diranno che “nessuno poteva prevederlo”.

Eppure, qualcuno poteva. Bulgakov, un secolo fa.

(EdS)

Riflessione di Fedro, No war in my name!, del 28 settembre 2025

28 Settembre 2025 in Post ad hoc, Prima Pagina

La percezione di vivere sull’orlo di una terza guerra mondiale porta con sé un senso di impotenza e di spaesamento. Molti cittadini hanno l’impressione che le decisioni vengano prese in spazi chiusi, in sedi istituzionali e diplomatiche che non lasciano tracce di trasparenza, e che le scelte di potenza abbiano come unico risultato quello di trascinare interi popoli verso una catastrofe. Ci viene detto che la guerra è necessaria, inevitabile, quasi inscritta nelle leggi della storia, e che ci sono informazioni segrete che giustificherebbero questa spinta verso il conflitto. Ma in realtà la guerra di cui parlano i leader occidentali non nasce da contrapposizioni ideali tra stati o da tensioni religiose come in passato: essa si radica soprattutto in interessi economici ben precisi. Sono le logiche di profitto, le ambizioni di controllo delle risorse e dei mercati, la pressione delle industrie belliche a indirizzare le politiche. In questa dinamica un ruolo decisivo è giocato da alcuni plutocrati che non hanno alcun interesse per i confini nazionali, né per i destini dei popoli, ma solo per la dimensione economica dei propri patrimoni. Sono loro a beneficiare della corsa agli armamenti e delle tensioni permanenti, mentre i cittadini si trovano a pagare con sangue, sofferenza e precarietà.

La realtà, osservata con sguardo critico, mostra che la guerra non è mai nell’interesse delle comunità: essa distrugge le città e i legami sociali, azzera economie costruite in decenni, dissolve le certezze della quotidianità. Sono i civili, non i governi né i miliardari che speculano, ad essere travolti e costretti a pagare il prezzo più alto: la perdita dei propri cari, la fame, la miseria, la fuga dalle case, la violenza subita come corpi fragili in balia di macchine belliche altamente sofisticate.

Di fronte a ciò, i popoli non possono e non devono rimanere spettatori silenziosi. Se è vero che gli equilibri geopolitici sfuggono al controllo del cittadino comune, altrettanto vero è che quest’ultimo ha ancora strumenti concreti con cui far emergere una voce di resistenza morale e civile. La storia dimostra che le grandi mobilitazioni popolari, quando durature, possono incidere. Essere a favore della pace non significa assumere un atteggiamento ingenuo, ma riconoscere in modo lucido che il prezzo della guerra è la distruzione stessa delle condizioni di vita. Ribellarsi alla logica dell’“inevitabilità” diventa allora un dovere: nei parlamenti, nelle piazze, nei luoghi di formazione e di socialità, portare avanti un discorso chiaro che sveli l’illusione della guerra come soluzione dei conflitti.

Ciò che i popoli possono fare si articola su più piani. Anzitutto sul piano culturale e comunicativo: smascherare la retorica che alimenta il conflitto, distinguere la propaganda dalle informazioni concrete, alimentare il dibattito pubblico sulla necessità della diplomazia. Poi sul piano politico e civico: organizzare movimenti, associazioni e iniziative che rendano evidente, anche ai rappresentanti istituzionali, che la maggioranza dei cittadini non accetta una deriva bellica fondata sugli interessi di pochi ricchi e potenti. Infine, sul piano personale e quotidiano: educare le nuove generazioni al valore della cooperazione, della solidarietà e del rifiuto della violenza, affinché il tessuto sociale sia strutturalmente refrattario alla logica dell’odio e della contrapposizione.

Questo impegno non nasce solo dal desiderio astratto di armonia tra i popoli, ma da una consapevolezza concreta e diretta: la guerra, ovunque esploda, significa vivere senza acqua, senza elettricità, senza gas; significa non poter avere accesso al cibo o alle medicine; significa vedere interrotte le reti di comunicazione e i trasporti, trovarsi isolati in città distrutte, contare i giorni nella paura di un bombardamento. Significa perdita del lavoro, del reddito, dei riferimenti sociali. Le generazioni che non hanno conosciuto la guerra non riescono ad immaginare la regressione brutale delle condizioni di vita che essa porta in poche settimane, anche in pochi giorni. Ribadire l’alternativa della pace significa, quindi, non un atto retorico, ma un’azione preventiva di sopravvivenza.

Per questo, il compito dei cittadini è tenere viva una voce collettiva che si opponga all’assuefazione e alla manipolazione. Non basta dire “no alla guerra” come un mantra vuoto, ma occorre creare reti, dialogo, consapevolezza. La pace è un bene comune fragile e va pretesa con determinazione, non solo per idealismo, ma per necessità vitale. Solo così si spezza il disegno di chi, interessato esclusivamente al profitto, vorrebbe trascinare l’umanità nel baratro.

(EdS)

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